“Di un compito in classe, di un esame, da noi si dice “copiare“, un verbo fattuale come non pochi, privo di connotazioni morali. In America si usa un verbo più generico “cheating“, imbrogliare, dotato di ovvia e potente carica negativa”
(da Giornalismo d’altri – primo non copiare)
Sono assolutamente d’accordo con Mario Tedeschini Lalli. Nelle parole che in una cultura si usano per definire le cose (o nella vera e propria esistenza di parole per definirle) si celano indizi davvero rivelatori. Come si può sviluppare un’etica personale forte quando per tutta la vita siamo stati abituati a considerare cose come ‘copiare’ o, meglio, imbrogliare come un fatto normale, strutturale? Come ci si sente, quali scelte si devono compiere quando all’università ci si trova in un esame, per così dire, collaborativo (in cui tutti copiano e si consultano)?
Si entra nel gruppo e si prende un 30? O si va avanti per la propria strada e si prende magari un onesto 27 o 28? E se io prendo un 28 come devo sentirmi, come posso avere fiducia nel sistema?
E perché mai simili metodi non dovrebbero poi essere portati, trasferiti in altri ambiti e percepiti come normali?
vedi anche: familismo amorale
ps come curioso effetto collaterale ora ricevo numerose visite da chi cerca ‘come copiare a un compito in classe’ o ‘come copiare esame’. Auguri.