Il rapido cambiamento di una delle zone più affascinanti e particolari di Tokyo
La voglia di ramen mi ha riportato a Golden Gai (via dorata) per una scodella di mezzanotte e una birra. Viaggiare per me significa anche concedermi qualche vizio. Sono andato da Nagi, un famoso ristorante dove a stento stanno otto persone. E’ aperto 24 ore su 24 e per fortuna non c’era fila: quando c’è gente si sta in coda in un vicolo strettissimo e un po’ claustrofobico. I tagliolini larghi e irregolari fatti a mano, il maiale arrosto e il brodo scuro di sardine dal sapore intenso occupano la mia pancia, i miei pensieri e il loro odore si è appiccicato ai miei vestiti. Sono un po’ stordito e così ci metto qualche secondo a rendermi conto che non riconosco più del tutto questa zona di Shinjuku che ho sempre trovato così affascinante.

Golden Gai è un posto speciale a Tokyo, e che fino a non molto tempo fa era davvero poco conosciuto e anche difficile da trovare. Una volta ci avevo portato un’amica di Tokyo che non ne aveva mai sentito parlare. La ‘via dorata’ è un incrocio di poche strade sulle quali si affacciano casette strette, basse e un po’ cadenti (alcune di legno) a due passi dai neon e dal chiasso del quartiere a luci rosse di Kabukicho. Qui si affollano quasi duecento bar minuscoli, a volte con solo due o quattro posti a sedere. Alcuni sono al primo piano, altri nello scantinato.
Negli anni ’50 queste casette erano per lo più bordelli, ora sono da quasi mezzo secolo locali a tema culturale e artistico: musica e cinema la fanno da padrone e fra i frequentatori di questa zona che si accende solo fra le 21 e le 4 del mattino ci sono sempre stati gli eccentrici, i registi, gli scrittori, i pittori. Non era un posto per tutti, però. Un tempo nei bar entravano quasi solo i giapponesi, che in diversi casi dovevano essere accompagnati da un habitué. Si entrava per conversare con il barista e con gli altri avventori. Il prezzo, si racconta, poteva in alcuni casi essere altissimo anche solo per un bicchiere.
E camminare fra le stradine buie e semi deserte, sbirciare nei bar, sentire conversazioni e risate o intravedere a volte situazioni bizzarre dava l’idea di essere sulla soglia di un mondo proibito e affascinante (Pio D’Emilia ha raccontato bene questo mondo). Immaginavo un giorno di essere invitato e di parlare il giapponese abbastanza bene per non rimanere in silenzio al bancone. E per questo non ho mai provato a entrare, per anni.

Ora però mi accorgo di essere in un posto diverso, che quel mondo che avevo intravisto, in pochi anni è già diventato irriconoscibile. Ho un déjà vu di Temple bar, a Dublino e della sua allegria alcolica un po’ insensata e sopra le righe. Oltrepasso alcuni ‘buttadentro’ nigeriani di Kabukicho che mai avevo visto spingersi fin qui (e a dire il vero cinque anni fa erano solo a Roppongi) e supero gruppi di stranieri brilli che barcollano da un locale all’altro. In giro sono spuntati cartelli, molti di più che in passato, con scritte come “welcome tourists” e i prezzi dei vari drink: tutto a 800 yen, free wi-fi.
Golden Gai mi sembra cambiata. Ci sono baristi e bariste giovani e locali dai quali provengono risate fragorose e ci sono pure tre poliziotti ai quali una donna un po’ agitata sta raccontando i problemi causati da uno straniero ubriaco. Li osservo per qualche secondo di troppo: è raro vederli fuori dai koban, gli ufficetti dell’agente di quartiere la cui principale funzione sembra essere quella di dare informazioni sugli indirizzi. Si girano verso di me e io affretto il passo.
Sento il rumore di qualcosa che sta andando in pezzi. Sento un’improvvisa, pungente nostalgia di quel luogo un po’ mitico che ho intravisto nei miei primi viaggi in Giappone, ma forse sono solo i tempi che cambiano e va accettato. O forse sono solo io che sto guardando meglio questo luogo, non ho certezze.
Però non mi do per vinto, cammino per le vie di Golden Gai avanti e indietro, provo a perdermi. In un bar con due soli posti c’è un uomo con un costume rosa e parrucca seduto al banco, in un altro da uno spioncino si vede solo un gatto accoccolato sullo sgabello. Da un locale vicino esce musica jazz: sembra l’inizio di un racconto di Murakami.


Poi c’è anche una specie di garage seminascosto da una tenda: dentro ci sono una donna di mezza età, un banco di legno e una sola sedia, vuota. Lei mi sorride, mentre passo oltre e vedo un cartello che propone brodo di tartaruga a 500 yen, in un bugigattolo al primo piano. In un altro locale ci sono una barista che fuma con un uomo in giacca e cravatta seduto che fissa il pavimento in preda a un profondo torpore. La vecchia Golden Gai c’è ancora, ma alla fine conto non più di cinque, sei fra locali chiaramente off limits, porte chiuse e cartelli che segnalano ‘only japanese’ o ‘only members’. Alla fine ritorno nella zona più trafficata, quella vicina a Yasukuni dori: è una delle mie ultime notti a Tokyo, sono solo e voglio un altro drink. Sono tentato di entrare, per la prima volta.

Un drink a Golden Gai
Nessun locale però mi invita. Molti sono troppo pieni, altri troppo allegri mentre io sento già la malinconia del ritorno a casa: domani prenderò l’aereo. Vorrei sedermi in un bar dedicato al punk rock, ma non c’è nemmeno uno sgabello vuoto. Poi c’è Zucca, a tema Halloween, che sembra divertente, ma dentro sono tutte donne. Proprio quando sto per andarmene vedo un cartello scritto a mano che recita “Have a problem? Tell Ace”. Mi sembra simpatico, diverso dagli altri ed è perfettamente in linea con il mio stato d’animo. Dall’interno dell’Ace’s music salon proviene musica blues americana. Il barista mi vede e mi fa cenno di entrare: ci sono un paio di posti liberi.
Prendo uno yamazaki, un whisky giapponese, mentre provo a capire di cosa si sta parlando. Ken, il barista, ama l’Italia, dove ha amici e viene spesso: è stato a Bologna, ma pure a Bolzano e Ancona. Al bancone ci sono un gruppo di brasiliani, due belgi e un architetto giapponese che viene una volta alla settimana. Si parla di cibo: uno dei ragazzi sudamericani snocciola la ricetta della fejoada, mentre l’architetto di Tokyo, Hiro, rievoca un suo vecchio viaggio nel centro Italia, a Montalcino, Cortona, Orvieto: il vino, la pasta, le donne con i fianchi larghi. Nella sua voce c’è nostalgia.
“Non so se ci tornerò mai, in Italia”.
Parliamo di case, di architettura e poi mi fa una domanda: “Ma come fate voi italiani a tenere le scarpe in casa, come fate a rilassarvi?”. Rispondo che, in fondo, non lo so nemmeno io. E’ un’abitudine, quella di togliersi le scarpe all’ingresso, che ormai ho fatto mia e alla quale non saprei più rinunciare. Sembra sorpreso.
Poi mi decido e faccio la domanda che mi si è bloccata in gola da quando sono entrato. Chiedo a Ken: “Pensi che sia cambiato molto Golden Gai negli ultimi anni?”
“Sì — risponde — soprattutto negli ultimi quattro-cinque anni, tanti hanno venduto il bar, in particolare questa zona, quella dietro è cambiata molto meno. Ma qui è tutto sempre più aperto, ci sono sempre più turisti”.
Hiro interviene: “Ken ha il bar da 14 anni, è stato fra i primi ad aprire agli stranieri”.
Da dietro il bancone Ken annuisce e sorride compiaciuto, forse tutta quella chiusura non l’ha mai capita e di quel mondo proibito che mi affascinava non credo gli importi molto. E, in questo momento, nemmeno a me. La compagnia stasera è ottima e se c’è qualcosa che mi ha insegnato l’Asia è che al cambiamento non ci si può opporre. Il cambiamento è la natura delle cose.
“Ken, posso avere un altro Yamazaki?”.
Stasera brindo alla mia ultima notte a Tokyo e alla prima, di molte, a Golden Gai: “Kampai”.
Link utili
Alcuni link per approfondire o con altre risorse utili:
- Tokyo 2020, a rischio Golden Gai – di Pio D’Emilia
- Tokyo in tre giorni: il primo (Asakusa, Ueno e Shinjuku) – da Orizzonti
- La nuova guida del Giappone del Touring
9 Commenti
Durante il mio primo viaggio in Giappone ci sono stata, ma i cartelli che vietavano l’ingresso agli stranieri erano ovunque, e in quei pochi dove invece l’ingresso era permesso non me la sono sentita (ero un po’ in soggezione). L’anno seguente, totalmente innamorata di Tokyo, ci sono tornata e ho avuto più coraggio.
Però era il 2011, era da pochissimo tempo successo il disastro di Fukushima e in giro non c’era un turista. La gente era stupita di vederci, ci ringraziava, qualcuno era addirittura commosso.
Nel giro di 5 anni il turismo in Giappone è esploso, la mia bacheca di Facebook è invasa di foto, sembra che ci stiano andando davvero tutti e io mi chiedo se resterà un angolino di Giappone che avevo conosciuto. Ci sono posti, lo ammetto, che vorrei custodire gelosamente dalle masse e dai gruppi vacanza. E in questo senso mi chiedo se ogni tanto quando scrivo dei miei viaggi non sia più saggio tenermi qualcosa per me, piuttosto che renderlo accessibile.
Scusa per il poema, e complimenti per questo racconto bellissimo.
Cara Simona, è più o meno la mia esperienza. Anche io ho visto il Giappone ormai molti anni fa per la prima volta, ed ero lì pochi mesi dopo il grande terremoto del Tohoku del 2011 (Nakamise dori era deserta in pieno giorno, non l’ho più vista così). Ora a volte non lo riconosco più, sta cambiando e anche in fretta. E’ un Paese ancora meraviglioso, ma qualcosa di quella sua unicità si sta perdendo, lo sento ogni volta che ci torno. A volte mi chiedo se siano solo i miei occhi che sono cambiati, che è il fatto che ormai parlo un po’ la lingua (e che la capisco meglio di quanto la parli), ma non è così. Parlando del mutamento di Golden Gai parlavo anche di questo. Una mia amica giapponese diceva che la crescita di turisti ha rallentato e che presto scenderà, quasi lo spero anche se, in fondo, anche io faccio parte di loro.
Capisco anche quando scrivi che certi posti vorresti custodirli gelosamente, vorresti tenerli per te. Io lo faccio spesso, è una grande responsabilità e spesso preferisco custodire gelosamente un segreto piuttosto che rischiare di rovinare qualcosa (pur nel mio piccolo, scriverlo sul blog non è certo paragonabile a metterlo su una lonely planet). Però il cambiamento va accettato, non possiamo rifugiarci nella nostalgia. Spero solo che non cambi il volto del Paese (e in questo senso temo un po’ le Olimpiadi del 2020 e soprattutto quello che farà il governo, ogni tanto si sentono voci assurde: per esempio pare vogliano tirar giù la bellissima, vecchia stazione JR di Harajuku per farne una moderna).
Sai Patrick, in Giappone li riconosci subito quei locali che sono un po’ un mondo proibito come dici tu, quando ci passo davanti li avverto, con quel loro aspetto un pò antico e quieto solitamente, in qualche stradina defilata in cui i turisti solitamente non passano. Sono gli stessi posti in cui sono sempre sicura di trovare dentro solo giapponesi e nei quali (se entrassi) penso causerei una certa sorpresa.
Di solito passo oltre ma ho sempre questa insensata voglia di entrare, mi attraggono, forse anche io un giorno come te troverò il coraggio di entrare consapevolmente.
Qualche volta sono finita senza farlo di proposito in posti i cui clienti erano solo giapponesi e solo uomini e ho passato il pranzo/cena a venir fissata, se ci penso rido, è una situazione buffa. Ma non demordo.
Ti capisco benissimo!
Ma per quanto alle volte ci si senta a disagio è una delle cose che mi affascinano di questo Paese, e che spero non cambino. SO che irrita alcuni stranieri, ma anche il senso di incomprensibilità o esclusione che si prova alle volte è una sensazione che mi piace e mi incuriosisce del Giappone. E, mi par di capire, in fondo succede anche a te. :) Ciao, a presto!
Io, prima o poi, questo paese lo devo visitare!
Mi piace un sacco l’abitudine di togliersi le scarpe a casa. Io, quando non fa troppo freddo, amo stare a piedi nudi :)
E’ un Paese meraviglioso, che ti rapirà, ne sono sicuro. Vacci appena possibile. Il turismo sta aumentando moltissimo negli ultimi anni (vedi anche il commento di Simona sotto) e ho paura che cambi irrimediabilmente.